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LA DONNA DAL VOLTO VIPERINO DI BARSENTO

 

Una misteriosa notte la luna assunse uno strano colore sanguigno. Una donna dal volto viperino, allora, apparve in sogno, contemporaneamente, a venti persone. Aveva una presenza spettrale e uno sguardo ipnotico, ulteriormente esaltato dalla stretta e allungata pupilla ellittica; le squame della testa, terminato il collo, si fondevano in maniera impercettibile con un incarnato pallido e morbido.

La sua imponente fisicità, esaltata dall’inquietante parvenza di rettile, la rendeva, allo stesso tempo, repellente e capace d’ispirare fiducia.

A ciascuno dei prescelti la donna suggerì di recarsi presso la valle di Barsento, dove avrebbero dovuto incontrare alcuni compagni e con questi inerpicarsi tra la fitta vegetazione che rivestiva la superficie di un rilievo; tutti insieme avrebbero scoperto una cavità contenente un’ingente quantità d’oro. La donna persuase ciascuno dei venti uomini a desiderare d’impossessarsi di quella ricchezza e dividerla in parti uguali. La donna viperina aggiunse, però, che, a causa di un rito misterioso, uno dei venti uomini sarebbe morto in seguito a tale scoperta.

La mattina seguente gli interessati confrontarono i loro sogni e, verificata la similarità, decisero di rivedersi quella stessa sera, all’imbrunire, nel luogo convenuto.

Tra questi vi era uno claudicante. Il più anziano del gruppo, famoso per la sua ingordigia, propose agli altri di predestinare come vittima il giovane zoppo e tutti acconsentirono.

All’imbrunire la brigata s’addentrò nel bosco e trovò, come annunciato, una grotta le cui pareti sembravano ricoperte di cera risplendente. I venti esploratori, scesi nel fondo della grotta, videro numerosi canestri intessuti con paglia dorata e ricolmi d’uva, fichi d’India, fioroni, albicocche, noci, ghiande, ciliege e di tanti altri tipi di frutti d’oro.

Inaspettatamente, la misteriosa sostanza che ricopriva la grotta si staccò dalla parete di fondo, creando, inizialmente, una sagoma indefinita. Questa, progressivamente, assunse la forma di un aratro d’oro massiccio trainato da due enormi buoi. Si delineò, nel frattempo, la silhouette di un aratore dello stesso prezioso materiale, il quale stringeva nel pugno un puntale d’oro.

Sedeva, innanzi a questo gruppo, un uomo che serrava nella mano destra una grossa spranga di ferro. Era il custode del tesoro, lasciato lì a guardia dai malfattori, ma non per l’eternità. L’anima della vittima predestinata, infatti, sgozzata da lui, l’avrebbe sostituito quella stessa notte.

La donna viperina, aveva deciso che era giunto il tempo di liberare il custode dal suo incarico e di fargli raggiungere il regno dell’aldilà.

I diciannove uomini alla vista di tutto quell’oro, sempre più convinti della validità del loro patto scellerato, per placare lo spirito del guardiano si avventarono contro lo zoppo e lo immobilizzarono. Il custode del tesoro, allora, si alzò, sollevò vigorosamente la spranga e cominciò a colpire senza pietà i malcapitati. Ne uccise solo uno, proprio quello che aveva proposto di sopprimere lo zoppo. Tranne quest’ultimo, vittima predestinata dagli uomini, ma non dal destino, gli altri diciotto si ritrovarono malconci e strapazzati.

Il tesoro, intanto, era sparito, rifusosi con le pareti cerulee della grotta.

Questa vicenda, forse, si ripete ancora oggi e, probabilmente, si riproporrà in eterno, fino alla fine del mondo, fino a quando alcuni uomini saranno pronti a sacrificare un amico pur di soddisfare i loro egoismi e dare retta ai sogni.

 

IL PASTORE AVIDO

Nei pressi di Barsento anticamente abitava un giovane pastore, dotato di bellezza e di gran forza. Questi, però, non era contento della propria condizione, né della propria vita, ma non sapeva ancora cosa volesse. La madre gli diceva di pregare Dio intensamente, affinché gli si chiarissero le idee e prima o poi qualcosa sarebbe successo.

Ogni giorno il pastore si alzava prima dell’alba, si lavava con l’acqua gelida contenuta in una tinozza, si vestiva e, quindi, inginocchiatosi pregava la madonna.

Preso un tozzo di pane, dei pomodori, un pezzo di formaggio fresco e dell’acqua, caricava la sua borsa e, radunato il gregge, si avviava verso i pascoli o i boschi. Mentre il gregge pascolava, si fermava dinanzi alla chiesa di Santa Maria e osservava la facciata cuspidata e i tetti a conversa.

Qualche volta, quando la temperatura era più calda, il giovane cercava un po’ di refrigerio all’interno dell’edificio sacro e, seduto sui gradini d’accesso, esaminava ogni dettaglio delle tre navate voltate a botte e comunicanti per mezzo d’arcate. Queste, poggianti su grosse e corte mensole e su pilastri quadrati, erano rese candide dal bianco abbagliante della calce con cui avevano tinteggiato l’intera superficie; ogni navata terminava con un’abside e, di queste, solo la centrale aveva una finestrella quadrata.

Un giorno decise di portare le pecore a pascolare nei boschi, proprio dove la vegetazione era più folta e tenebrosa.

Il giovane fu colpito da un improvviso bagliore. Avvicinandosi, vide un serpente che aveva un brillante sulla sommità della testa, ricoperta di piccole squame verdi. Incastonata tra gli occhi, ricoperti da una pellicola trasparente, la pietra luccicava moltissimo. Il pastore decise di uccidere il rettile e di impossessarsi della pietra, ma prima ancora che lui potesse agire, il rettile si sollevò, mostrando le larghe squame. Fissando negli occhi il ragazzo e aprendo le fauci con voce umana esclamò: Se sei sveglio e non sei sciocco, non mi colpire che non ti attacco. Lascia vivere in santa pace chi del male non ti fa.

Il pastore, volendosi appropriare del brillante ad ogni costo, non volle ascoltare l’esortazione. Avendo in mano un grosso bastone colpì il serpente con tutta la forza che aveva in corpo. Questo cadde a terra con la testa maciullata. Subito dopo, però, cominciò a dilatarsi, raggiungendo rapidamente le dimensioni di un grosso bue. Avvicinatosi al pastore, con un colpo di testa lo scaraventò su una roccia appuntita, quasi uccidendolo.

     Il giovane pastore riaprì gli occhi e vide davanti a sé le tre piccole absidi della chiesa di S. Maria e, intorno, le sue pecore che lo guardavano sbigottite. L’uomo, stanco, si era assopito sotto il sole rovente. Asciugatosi il sudore e dopo aver bevuto dell’acqua, gli sembrò di sentire una voce: Se sei sveglio e non sei sciocco, non mi colpire che non ti attacco. Lascia vivere in santa pace chi del male non ti fa.

Nella vita senza dolore e delusioni, senza infrangere qualche sogno, non s’impara a considerare il proprio cuore, a convivere con il proprio destino: sognando, il giovane pastore, però, aveva imparato la lezione.

 

 

IL SERPENTE DI PAPARALE

Siamo nella contrada che oggi chiamano Paparale, alle porte del paese. Qui sorgeva una torre piuttosto alta e molto possente, innalzata con una tecnica costruttiva che, apparentemente rudimentale, aveva consentito di edificare un edificio resistente e inespugnabile. La torre era difficile da raggiungere perché protetta da una folta vegetazione. L’erezione della torre era stata ordinata da un antico sacerdote, famoso e odiato per la sua avarizia. Per renderla inattaccabile si era rivolto ad esperti costruttori, provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico. Così, ogni qual volta il vecchio taccagno riusciva ad accumulare ricchezze correva a nasconderle nella sua torre.

L’unico edificio vicino alla torre era un gran trullo, edificato senza alcun legante. Agli spessi muri perimetrali era addossato un gradone, con stretto ballatoio, nel cui spessore era stato ricavato l’ingresso. Quest’ultimo, arcuato e sovrastato da un frontone, era sporgente rispetto ai muri perimetrali, così come un’altra parte, coperta a conversa, addossata sul lato destro della costruzione.  Era tradizione che questo trullo fosse l’abitazione del sacerdote e luogo in cui eseguiva le sue pratiche religiose.

Durante la sua vita, non avendo mai amato, nessuno gli aveva voluto bene. Sentendo vicino il momento della morte, l’anziano sacerdote non accettava l’idea che gli eredi o altri potessero impossessarsi della sua fortuna.

Attese una notte senza luna, era certo che nessuno fosse nelle vicinanze. Sapeva benissimo che i campi erano deserti da due giorni perché aveva ordinato di non lavorare mai negli ultimi due giorni di luna decrescente e tanto meno senza astro.

Dunque raggiunse la sommità della torre. Predisposto l’armamentario magico e recitate formule segrete, bruciò erbe e misteriosi infusi con poteri straordinari in un braciere d’ottone. Dopo essersi unto con tali sostanze, invocò gli spiriti delle tenebre. Presentatisi a lui, questi strinsero un patto. In cambio della sua anima avrebbero dovuto proteggere il patrimonio da lui accumulato per l’eternità. Gli spettri nefasti, dunque, misero a guardia del tesoro un enorme e grandioso serpente nero che aveva sulla testa un lungo corno d’oro. Chiunque si fosse avvicinato, se non fosse morto prima di paura, sarebbe stato ucciso dall’enorme rettile.

Il ministro del culto, in punto di morte, pentitosi, raccontò tutto ai suoi eredi. Le divinità del male, infuriate, fecero crollare il possente torrione, dimenticandosi del serpente dal corno d’oro. Del tesoro non si seppe più nulla. Era la notte del ventiquattro giugno, giorno in cui cade il solstizio d’estate.

Per secoli, durante quella notte, la gente ha bruciato in questa contrada l’iperico, raccolto la mattina. Questa pianta magica raggiunge il massimo potere nel mese di giugno. Si può trovarla in luoghi aridi e soleggiati. Secondo la credenza, i numerosissimi fiori gialli a cinque petali, lucidi e picchiettati di nero, se bruciati la notte di S. Giovanni hanno il potere di scacciare i demoni o, almeno di indebolirli anno dopo anno.

 

IL BRIGANTE GABBATO

Anche in una terra magica per natura ed incantata per vicende, la storia offre spunti minacciosi. Per queste contrade risuonava da sempre il nome di un brigante, Ciro Annicchiarico.

Nato in una provincia lontana, Ciro apparteneva ad una famiglia piuttosto agiata. Ancora fanciullo, fu mandato dal padre a studiare in seminario, nell’intento di farlo divenire sacerdote. L’attesa, almeno inizialmente, divenne realtà e Ciro, solo quando divenne ministro del culto, poté uscire dal collegio ecclesiastico.

Il suo aspetto e il carattere certamente non lo rendevano amabile ai fedeli. Era robusto, villoso, irritabile, amante del rischio e portato alle esagerazioni in tutto. La gente mormorava, non senza timore, che a circa trent’anni aveva avuto una relazione con una certa Antonia, detta la Curciola e che, per gelosia, avesse ucciso un suo spasimante. Quest’omicidio lo costrinse a fuggire e a nascondersi nelle campagne e dare inizio alla sua attività di brigante. Altri davano come causa scatenante della sua scelta un’altra vicenda. Ciro aveva una sorella particolarmente attraente. Ella cedette alle lusinghe del suo fidanzato che aveva promesso di sposarla. Restò incinta.

Saputa la notizia, inizialmente, Ciro non si scompose, ma affrontò a viso aperto il fidanzato della sorella: “Amico, dato che la cosa è ormai avvenuta, ti prego di limitare il danno e riparare il fatto, sposandola”. L’altro prese tempo. Ciro, infine, disse: “Se fra un mese non sposi mia sorella ti sfondo il petto con due colpi!”. Trascorso un mese e un giorno, trovatolo per strada, gli si accostò e senza proferire parola fece quanto promesso e quindi fuggì.

Questa seconda versione certamente non giustificava appieno la sua scelta di vita, ma perlomeno dava come causa scatenante quella che la gente definiva “una questione d’onore”.

Ciro aveva, come tutti, anche alcuni aspetti positivi. Era veramente coraggioso, sincero, leale nei rapporti e sincero con gli amici. Spessissimo si recava ad Alberobello, qui aveva amici anche tra le famiglie più rispettabili del paese. Quando arrivava, trovava sicura ospitalità presso la casa di una certa Brigida, giovane e bella vedova, sua amante. Lui diceva fiero che li aveva sposati il vento e che il loro giuramento era stato santificato dalla natura. Si riferiva al fatto che un giorno aveva condotto la sua donna presso un nascondiglio immerso in un bosco, nelle vicinanze di una località detta Corno della strega. Lì, circondati da un paesaggio segnato da bianchi muretti a secco, tra pascoli e bianche masserie, sulla sommità di una collinetta si erano reciprocamente tagliati due ciuffi di capelli e, posatoli sul palmo delle loro mani, avevano aspettato che il vento li portasse via e li confondesse, così, con gli altri elementi della natura.

Ciro aveva sempre con sé un bel gruzzolo di monete. Questa somma era il frutto della sua attività di brigante, ma anche di una ricca eredità lasciatagli dal padre.

Un giorno il brigante decise di affidare la somma alla sua donna.

Non si sa poi come, alcuni ladruncoli vennero a sapere della somma e decisero di trafugarla. Un certo Gigante, amico di Ciro, venuto a sapere dell’intento dei furfanti, decise di avvisarlo. Ciro, quindi, lo sottrasse a Brigida e lo portò presso un sicuro nascondiglio a casa del suo amico. La sera stessa partì in tutta fretta: era venuto a sapere che il re Ferdinando I aveva inviato il famoso generale Church per combattere il brigantaggio.

Qualche tempo dopo il generale si spinse fino ad assediare la masseria nella quale Ciro si era rifugiato con i suoi. Dopo un primo assalto fallimentare, il generale si fece inviare da Taranto un cannone e lo puntò verso la torre della costruzione rurale. A quel punto i briganti dovettero arrendersi. Catturati, furono tutti fucilati. Le loro teste furono esposte nei rispettivi paesi natii.

Il ricco tesoro restò, dunque, nelle mani del fiduciario che, divenuto molto ricco si guardò bene dal dare anche una sola moneta a Brigida. Spesso, ripensando al brigante Ciro, diceva: “Morte tua, vita mia”. E che vita…

 

IL FURTO DEL TESORO DEI SANTI MEDICI NELLA BASILICA DI ALBEROBELLO

Un tempo avvenne ad Alberobello un fatto davvero straordinario.

Una ricca famiglia che abitava in un lussuoso casale in Contrada Orlando aveva accumulato molte ricchezze compiendo furti e rapine nelle masserie del territorio. Era loro abitudine, dopo i furti, spartire il bottino tra i familiari.

Un giorno due di loro, sprezzando la sacralità di un veneratissimo luogo di culto, decisero di appropriarsi dei preziosi (moltissimi oggetti di valore donati dai devoti) custoditi nella basilica dei Santi Medici Cosma e Damiano di Alberobello.

I due malfattori entrarono in chiesa proprio il giorno della festa liturgica dei Santi e ammirarono le moltissime ricchezze di fronte a loro, già pregustando il momento in cui se le sarebbero portate via.

Stavano per andar via con il bottino quando si resero conto di aver dimenticato di prendere le aureole poste sul capo dei sacri simulacri. Posarono, dunque, per terra il sacco pieno di preziosi e salirono sulle due statue. Tuttavia, mentre stavano per trafugare le aureole rimasero attaccati ognuno a ciascuna statua. Immobili, dovettero rimanere in quella scomoda posizione tutta la notte. L’indomani il parroco li ritrovò lì e, incredulo, corse a suonare le campane.

L’allarme allertò gli uomini delle forze dell’ordine, che recuperarono la refurtiva, ma non potettero arrestare i due ladri perché non riuscirono a sottrarli alle statue. Ben presto un folto gruppo di fedele indignati giunse all’interno dell’edificio. Le donne iniziarono a pregare, mentre gli uomini proponevano ogni sorta di soluzione per consegnare i ladri alle forze dell’ordine.

La situazione, però, restò invariata e ben presto i devoti iniziarono a parlare con le statue, senza però ricevere risposta. Arrivati a sera fu proposto ai Santi di punire i malviventi condannando loro e tutti i familiari alla miseria per sette generazioni. Tra lo stupore generale, all’improvviso i due si staccarono dalle statue, cadendo ai loro piedi. Alzatisi, non furono percossi, ma invitati a tornarsene a casa. I due si allontanarono di corsa, convinti di averla fatta franca. Tuttavia, giunti al loro casale, quella notte sentirono strani rumori e scricchiolii. Impauriti, chiesero a Santa Rosa, la cui statua si trovava nella loro abitazione, di essere salvati, qualora stesse accadendo qualcosa di grave. All’improvviso la situazione tornò tranquilla. Ma pochi giorni dopo la statua iniziò a dondolare con forza, sicché i due ladri e i loro familiari, temendo il crollo della casa, scapparono solo con quanto avevano addosso.

Fecero appena in tempo a prelevare la statua della Santa, che il casale crollò rovinosamente, seppellendo per sempre tutti i tesori.

I miseri, dunque, ben presto divennero degli straccioni e tali rimasero per sette generazioni, come avevano voluto i Santi Medici.

Testi a cura di Tommaso A. Galiani